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David MILIOZZI /Occurrentes cum Nino Ricci/

Macerata, centro storico, via Crispi. Mi fermo davanti al palazzo prima della curva. In sottofondo il brusio di alcuni clienti di un locale che sta per chiudere.
C’è una targhetta in ottone dove è inciso il nome “Ricci”. Punto l’indice verso il campanello.
Un trillo regolare e discreto si perde nella strada e dopo qualche secondo si apre il portone.
Il Maestro, in cima a un blocco di scalini, mi invita ad entrare con un cenno della mano.



Interno casa. Un salone finemente arredato con mobili antichi. Le pareti affrescate.
-Saliamo?- il Maestro indica le scale alle sue spalle.
Le opere d’arte ci accompagnano fino al piano superiore.


Salotto. Due divani di velluto e un tavolino di cristallo.
Il Maestro mi è seduto davanti. La sua è una figura elegante, il suo volto emana un calore che forse è il calore dei Maestri che lo hanno preceduto o forse il calore dei fantasmi con cui è solito parlare per ritrovare il senso del suo stesso fare.
Alle mie spalle un’opera di Consagra e una finestra da cui filtra la luce di una giornata di novembre. Sulla parete di fianco alla porta una serie di stampe di vari artisti, tra cui alcune del Maestro. Fisso la stampa all’estrema sinistra, vicino al mobiletto. E’ un lavoro di Ivo Pannaggi: rappresenta la torre civica vista dalla piaggia. -La regalò a mio padre prima di partire per la Germania- mi spiega il Maestro.
-Si conoscevano bene?- chiedo. E da questo momento resto ad ascoltare la sua voce. La vita di Nino Ricci raccontata da Nino Ricci. Gli anni degli studi a Urbino, il trasferimento a Roma, la grande mostra di Picasso, gli scandali negli ambienti accademici, l’incontro con Cantalamessa, la strada della pittura, i suoi amori, Rothko e Klee, per cominciare.

-E’ possibile visitare il suo studio?- gli chiedo. Il Maestro mi guarda con i suoi occhi chiari, uno sguardo pacato, ma nello stesso tempo pieno di furore, il furore di chi mette in gioco la sua vita con l’arte. -Andiamo- mi dice tirandosi su.
Saliamo un’altra rampa di scale, ci sono opere d’arte ovunque.
Lo studio è in cima, sul punto più alto della casa, affascinante e inaccessibile come la mente di chi crea. Un ballatoio con diverse stanze, quella che ci accoglie è la più spaziosa, sulla parete centrale una grande tela del Maestro i cui colori dominanti sono il rosa e l’azzurro.
Una biblioteca addossata al muro sembra sorreggere il tetto. Mozart, leggo su diversi tomi. Sul tavolino sotto la finestra, tra gli strumenti di lavoro, c’è un cartoncino giallo opaco, un piccolo cartoncino dove sono stati attaccati con punte di scotch dei pezzettini di carta. Come può un pezzetto di carta diventare così espressivo?
Alle mie spalle dei calchi, opere in cartapesta che riproducono in aggetto l’iconografia degli ultimi lavori -Mi servono per capire cosa sto facendo- mi spiega il Maestro.
Proseguiamo nella stanza prospiciente, c’è un cavalletto con un’opera incompiuta.
-Sta lì da un mese- sorride -L’arte è un tentativo di dominare il mondo. Ci vuole tecnica. Ma è fondamentale saper aspettare. Attendere con pazienza la spinta della creatività e quando arriva assecondarla. Tutto viene da sé quando si sa ascoltare-
-Come è arrivato a queste forme?- chiedo indicando l’opera che mi sta davanti.
-Il cimitero ebraico di Praga-
-Che bella Praga-
-Il cimitero è la cosa più bella di Praga. Il cimitero nuovo. Ci sei mai stato?-
Scuoto la testa.
-Peccato. La prossima volta che vai a Praga devi visitarlo. Ci sono stato nell’86, in pieno regime comunista. Ero con Giancarlo Liuti, forse lo conosci. Siamo entrati per puro caso, c’era una mostra di bambini per commemorare lo Shoa. Entrammo e mi mancò il fiato. Per la bellezza e la verità silenziosa di quel posto. Ho sentito una presenza fortissima, che dovevo rievocare. Un’esperienza che da quel giorno continuo a raccontare. Strati sovrapposti di storia. La memoria del mondo e dell’uomo- Fisso il quadro di fianco alla porta: quattro lapidi rosa mattoncino sospese tra cielo e terra. -Andiamo di là- mi dice il Maestro precedendomi. Proseguiamo per il corridoio che unisce le diverse stanze. Davanti a un’opera astratta del ’59 il Maestro sorride -Sono stato fortunato a scegliere la strada dell’astrattismo- sfiora la tela che tanto ricorda un lavoro di Klee -Il realismo ha avuto i suoi grandi artisti, penso a Sironi, ma poi?- sospira -Klee è stato fondamentale nella mia vita-
-Come il cimitero di Praga?-
Indica un lavoro materico della metà degli anni ’60 -Dovevamo superare la tradizione. Il passato era troppo ingombrante. Non era facile trovare la strada giusta. Quella che pensavi fosse la strada giusta a volte non lo era-
-Bisogna essere onesti per fare arte- dico.
-Che altro possiamo fare?- sorride -A me è sempre mancata la furbizia dell’artista contemporaneo-
-Posso fotografare?-
-Fai, fai- Che sia un’opera degli anni cinquanta o del 2013, la voce interiore dell’artista continua ad arrivare con forza. La superficie dipinta si muove nel miracoloso incastro del piano unico del quadro. Studio chirurgico del colore e lirismo convivono in un’indagine che mi fa pensare all’Infinito di Leopardi. Poesia fatta tela. L’accadimento, di cui la superficie dipinta si fa evento, non è mai dove lo vediamo, si muove nella memoria di chi osserva. La composizione, per quanto perfetta, non ha nulla di razionale, nulla del calcolo che il processo di stesura cromatica e delle conseguenti sfumature potrebbe suggerire, qui tutto si fa fisico e metafisico, non c’è un confine tra queste due categorie di pensiero. L’evidenza delle forme e dei colori generati sull’abisso del foglio bianco esprimono il sentimento di un possibile accadere che bisogna saper ascoltare. Tutto è scrittura in senso di alfabeto parlato nella duplice lingua del frammento e dell’intero. Tutto è esatto e amputato per scongiurare il conosciuto. Tutto non è mai illuminato per effetto di fonti di luce, ma sempre luce sorgente dall’interno. Tutto è antinaturale nella misura in cui è profondamente umano.
-Queste opere sono bellissime- dico.
Il Maestro fa un breve sorriso -Dici?-

Epilogo
Saluti. Due persone si scambiano un abbraccio. In fondo non si conoscono, ma conoscono un comune sentire. La loro amicizia li ha preceduti, e come loro tutti coloro che attraverso questo sentire vivono ogni giorno come l’ultimo.

La visione è proprietà del visionario, penso cominciando a risalire via Crispi. E il visionario vive guardando nelle pieghe dell’evidenza. I palazzi mi vengono incontro coi loro spigoli perfetti, così belli che mi viene voglia di correre. Per un attimo mi volto verso la casa del Maestro. Nino Ricci è un artista senza tempo, mi viene da pensare. Chiudo gli occhi e lo immagino seduto al tavolo di lavoro con i suoi strumenti. Il suo sguardo limpido e intenso fissa davanti a sé. Oltre le opere appese, oltre la parete della sua casa, oltre le mura della città, oltre il mondo conosciuto. Nell’isolata e sconfinata possibilità di dire l’indicibile. Come solo i grandi artisti possono fare.


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