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Silvia CARLOROSI /Cosimo Ortesta: La Rinascita della Parola nell’Attimo Poetico/




L’Ombra di un mondo esterno si avvicina
radice che dal ventre e dalla mente cressce
nuda fraterna lingua
contro l’esperienza del giorno.
Le sue costellazioni luminose e fredde
sono presaio di amori incerti
di fiocchi di neve, bufere incandescenti,
e al centro del campo azzurro la pioggia roteando
fa notte estiva, quiete e calma,
in cui si chiude assonnata e ferita
un’altra perfezione.
Cosimo Ortesta Serraglio Primaverile (1999).





Cosimo Ortesta nasce a Taranto nel 1939 e la sua prima pubblicazione risale al 1977, con il componimento “La passione della biografia” apparso nei Quaderni della Fenice (diretti da Gianni Raboni). Solo un paio di anni più tardi Ortesta darà alle stampe la sua prima raccolta: Il Bagno degli Occhi (1980), seguita da La Nera Costanza (1985) e Nel Progetto di un Feddo Perenne (1988). Come si può notare anche solo dal titolo dell’ultima opera, queste tre raccolte costituiscono un continuum in cui l’autore esplica il proprio progetto poetico. Partendo da una percezione principalmente concentrata nell’organo visivo “in cui i corpi, afferrati nella loro nuda presenza, si offrono sullo sfondo di un pensiero che cerca il proprio limite rappresentabile, la forma purificata della propria materialità, fino alla resa a una sorta di elemento luminoso e incorporeo che abita biologicamente lo spazio e si riverbera nei luoghi della mente” (Bonito, Il Gelo, 16), Ortesta realizza una “parola che si fa visione”, si congela nel verso e si liquefa, “filtra/ all’improvviso come un segnale/ dalle crepe rotte su un fianco” (La Nera Costanza). 

 
Il progetto poetico di Ortesta, inoltre, si accompagna non solo di varie traduzioni da Baudelaire, Rimbaud, Mallarmé, Char e Jaccottet, ma anche di una raccolta antologica dei suoi brani, da lui stesso curata, Una Piega Meraviglia (1999), edita per le edizioni Anterem. La riflessione critica dello stesso autore che arricchisce tale antologia è segno indistinto della consapevolezza interpretativa e programmatica di Ortesta, e della canonizzazione precoce che sembra essere diventata caratteristica sempre più comune per i poeti di questi ultimi anni.1 Eppure, forse a causa del recente sovraffollamento del panorama poetico italiano nel contesto letterario contemporaneo, Ortesta sta ancora cercando di raggiungere un suo spazio critico ben definito.2 Il suo nome tutt’oggi rimane all’ombra di altri: l’unico critico che si è interessato principalmente allo studio dell’opera di Ortesta è Vitaniello Bonito, ma il suo libro Il Gelo e lo Sguardo rimane un caso isolato, e si ferma comunque solo all’analisi delle prime tre raccolte del poeta.3
Da queste brevi premesse si può subito capire come sia difficile cercare di inquadrare la poesia di Ortesta all’interno di una categoria assoluta: basti pensare che sebbene il poeta scriva per la rivista Anterem i temi e le modalità della sua scrittura sono piuttosto riferibili a una poesia In re, in quanto poesia delle immagini, poesia che “si faccia corpo, che si possa vedere e toccare”, “in cui il colore del suono nasce come dall’immagine, non l’immagine dal colore del suono” (Anceschi, 22). La parola di Ortesta diventa vitalisticamente un veicolo di un pensiero rappresentabile proprio nel momento in cui sta indagando i limiti di tale rappresentabilità, e la sua produzione poetica ne esplica i modi e la rappresentazione stessa.
Ma può veramente, l’attimo poetico, creare un momento di vitalità linguistica all’interno di sé? Qual è il contenuto della forma poetica di questa poesia che nasce e si rigenera in sé? Ed in che modo Ortesta sviluppa il suo discorso poetico narrativo nella successione dei componimenti? In altre parole: come prende forma il suo progetto poetico per una rinascita della vitalità linguistica, come si dipana e come agisce all’interno dei versi delle sue raccolte? E in fine, qual è, in tutto questo, il ruolo del lettore e del suo atto interpretativo? Sono questi gli interrogativi a cui cercherò di trovare una risposta nella mia analisi. A questo scopo analizzerò alcune delle poesie tra le più significative di quella che è tutt’ora la più recente raccolta di Ortesta, Serraglio Primaverile, mettendo in evidenza come queste modellino il discorso narrativo, ma anche come la lingua stessa si appropri di una vitalità nuova nel componimento dei versi. Lo scopo principale di questa mia ricerca è proprio quello di indagare come l’idea e le forme della lingua vengano sviluppate nei versi di Serraglio Primaverile che sarà qui analizzato come esempio stilistico del processo creativo che l’attimo poetico crea come momento di vitalità linguistica in sé.
Serraglio Primaverile, esce ben undici anni dopo Nel Progetto di un Freddo Perenne e può essere considerata come una rivisitazione delle altre opere alla luce di una nuova primavera, in cui la vitalità linguistica sprigiona un nuovo vigore, anche se rimane ancora chiusa in un “serraglio”. Il gelo che aveva immobilizzato i versi precedenti si scioglie ora davanti allo sguardo di un bambino che in silenzio “assiste al suo stupore” (10). Quest’ultima prova artistica di Ortesta si propone come “una sorta di disgelo esistenziale e poetico, perché la primavera diviene misura interiore di uno sguardo che può restituire le ombre ai corpi e la luce di uno stupore che sa nuovamente interrogare l’esperienza in una “nuda e fraterna lingua” (Lorenzini 241).
La raccolta contiene componimenti poetici in versi liberi divisi in sette diverse sezioni, ognuna con un titolo a sé, ma sempre in dialogo narrativo l’una con l’altra. L’ultima di queste, quella da cui prende il titolo l’intera raccolta, è esplicitamente dedicata ad Attilio Bertolucci, nata, come lo stesso Ortesta dichiara, “per suggestione” (97), dalla lettura de La Camera da Letto. Bertolucci, che tra l’altro muore l’anno successivo all’uscita di Serraglio Primaverile, deve quindi essere visto come un autore in dialogo col poeta triestino, il quale ne riprende la ricerca stilistica e poetica.4 Come quelli del suo padre artistico, anche i versi di Ortesta si colorano di un sapore narrativo che dà continuità alle poesie della raccolta, e che può perciò essere letta come un continuum narrativo con un suo inizio e una fine ben definita.5 In questo contesto, Serraglio Primaverile si può vedere come una narrativa il cui soggetto viene annunciato fin dal primo componimento poetico (la rinascita della “nuda fraterna lingua”) e si evolve nello spazio della raccolta fino a diventare immagine, “immagine/ di persona umanamente desiderata ma non amata”, come recita il verso finale di “Stella” ultima poesia della raccolta, nonché l’unica dell’ultima sezione.
Il titolo della raccolta la pone in continuità dialogica con le altre, e una prima analisi di esso può subito far intuire la tematica proposta all’interno dell’opera e del programma poetico intrapreso dall’autore: dopo il freddo dell’inverno arriva la primavera, ma la rinascita che questa porta con sé è racchiusa in un “serraglio” che delimita i confini di un supposto risveglio. Si può subito ipotizzare che questo serraglio sia simbolicamente riferito allo spazio delimitato entro i confini del contenitore poetico, all’interno del quale prende forma e agisce una nuova vitalità linguistica. L’epigrafe che apre la raccolta è già un altro indizio che sottolinea la continuità poetica programmatica di Ortesta, una ricerca in fieri che non è ancora giunta al punto d’arrivo: “Da un certo punto in poi non c’è più ritorno. /Quel punto dev’essere raggiunto. (Franz Kafka)” (4). Serraglio Primaverile, quindi, costituisce una delle tante tappe che portano al raggiungimento di questo punto di non ritorno, inserendosi come la proposta per una positiva ripresa delle potenzialità insite nel potere poetico della parola.
La prima delle sette sezioni di cui si compone la raccolta ha come titolo “Nella Sfera del Bosco”, e il componimento che la apre introduce subito il tema dominante della raccolta: il risveglio della “nuda fraterna lingua”, da sempre radicata nel “ventre “ e nella “mente”, e che ora ha la forza di erigersi “contro l’esperienza del giorno”. I riferimenti subito successivi alle “costellazioni” e al trascorrere delle stagioni richiamano l’idea del ciclo continuo della vita che si racchiude in se stesso, in “un’altra perfezione”. Questa lingua appena rinata prende forma nei versi, e crea subito l’immagine della vita che passa e si ripete aprendosi e chiudendosi in circoli sempre perfetti, quasi fosse alla ricerca di una primordiale armonia con la natura. Le poesie che seguono continueranno a delimitare i confini del risveglio della natura all’interno dei quali la lingua prende nuovamente vita.
La scrittura di Ortesta, in questo come in tutti gli altri componimenti, si presenta come composta da periodi spesso sconnessi, che evocano immagini dalla visibilità immediata, proponendoli come se fossero dei pezzi di un mosaico in attesa di essere ricomposti, o uno spartito che aspetta di essere eseguito dall’interpretazione del lettore che solo potrà dar loro vita. L’interpretazione del lettore è infatti elemento essenziale affinché i versi prendano vita e la lingua si carichi di significato, e soprattutto affinché riesca così a creare un immaginario visivo all’interno dei versi della raccolta. Come spiega Jean Starobinski in La Filologia e la Critica Letteraria, infatti, “l’interpretazione deve essere in definitiva riconosciuta come qualcosa che, di primo acchito, anima la scelta dell’oggetto e il lavoro di restituzione” (180), ma nel far questo non si deve eludere quello che è il potere della lingua e del testo, che rimane sempre il primo interlocutore del lettore, “perché il testo ha diritto di vaglio su quello che viene detto di esso; rappresenta, per il discorso interpretativo, un interlocutore che non si lascia eludere” (181).
L’approccio critico di Jean Starobinski sembra il più adatto per analizzare l’intervento poetico di Ortesta, in quanto il filosofo fonda la sua critica sull’idea che l’atto letterario, modificato dal linguaggio, “ceases to be a conditioned phenomenon and becomes a conditioning intervention” (Goldhammer viii), necessario per distinguere la linea sottile che divide la realtà dall’apparenza. Per questo Starobinski usa la metafora dello sguardo panoramico dall’alto (un regard surplombant): la troppa vicinanza fa perdere forma agli oggetti, mentre una lontananza eccessiva ne priva delle loro peculiarità. Dunque, la lontananza critica può mettere in luce la virtualità di un testo, mentre l’atto interpretativo rimane sempre in dialogo con esso. Starobinski vuole che il lettore si avvicini alle pause e ai buchi del testo, che più di altre sono espressione della soggettività e coscienza dello scrittore, e nei componimenti di Ortesta sono proprio le pause, i buchi che creano l’immagine poetica, in quanto lasciano spazio al non detto, e quindi all’immaginabile, che può prendere forma solo grazie all’interveneto interpretativo e dialettico con il lettore.
La vitalità linguistica che postula Ortesta fin dal primo componimento si esprime proprio nell’espressione delle potenzialità della lingua all’interno del momento poetico, che prende forma nelle immagini che ferma in sé come fosse un “chiaro rifugio invernale” (9). Chiaro esempio ne è proprio la poesia successiva, che nel breve spazio di due stanze crea l’immagine di una “bestia ferita” distesa in posizione fetale “in un campo di fiori” che si metamorfizza in quella di un bambino “che assiste al suo stupore” (10): entrambe creature appena nate, che per analogia si possono ricollegare alla “nuda fraterna lingua” del componimento precedente. La poesia si compone dunque di immagini frammentate che sono allo stesso tempo l’oggetto da vedere e l’occhio che le scruta e “assiste al suo stupore”, come un occhio che si vede vedersi, scruta se stesso nell’attimo stesso in cui guarda il mondo esterno.6 L’immagine di cui parla il poeta, dall’aspetto metamorfico e mostruoso, viene percepita solo se si impiegano tutti i sensi, ed è rappresentabile nell’attimo poetico proprio nel momento in cui prende forma grazie all’utilizzo di strumenti retorici quali la dislocazione dei soggetti, enjambements significativi, fortissime sinestesie.7 Tutte figure retoriche che aprono lo sguardo e permettono al poeta di descrivere l’immagine in tutte le sue angolazioni, e al lettore di attivare la propria immaginazione per creare la sua percezione dell’immagine. Come la matita per disegnare, allora, il linguaggio diventa un mezzo per riflettere sulla pagina bianca la soggettività così generata, e lo sguardo ne rimane “l’attributo principale”, parte di un ambizioso programma di rieducazione dello sguardo (Magrelli xi).8 Il linguaggio, come la penna per scrivere o la matita per disegnare, è un mezzo per riflettere sulla pagina bianca la soggettività così generata dallo sguardo, in un infinita possibilità di creazioni e interpretazioni, che ricorda la teoria wittgenstaniana del Benennungssprachspiel.9 Wittgestein, con la sua idea del gioco linguistico, necessario per creare con il linguaggio le cose più varie perché innumerevoli sono le possibilità della lingua, si era opposto alla metafisica dominante e aveva riportato l’attenzione del pensiero filosofico moderno all’analisi interpretativa delle cose intorno a noi, primo fra tutti il linguaggio. Ortesta, allo stesso modo, gioca con la parola e con le sue innumerevoli combinazioni e significazioni, per ridare alla lingua la vitalità di cui era stata privata dalla Neoavanguardia. Il programma poetico di Ortesta prevede anzitutto una presa di coscienza di sé, del potere della lingua minato dalle generazioni poetiche precedenti, e quindi un riscatto della stessa come lingua per comunicare, interpretare ed essere interpretata, e per esprimersi nelle sue infinite possibilità, che hanno le proprie radici proprio nel linguaggio poetico. Per usare le parole di Kristeva, “literary practice is seen as exploration and discovery of the possibilities of language; as an activity that liberates the subject from a number of linguistic, psychic, and social networks; as a dynamism that breaks up the inertia of language habits and grants linguists the unique possibility of studying the becoming of the significations of signs (2-3).
Ortesta esplicita il suo monito poetico in uno dei brevi componimenti che seguono, in cui chiama in causa proprio la lingua, la “soffice lingua comune” che, a dispetto delle umiliazioni subite, rimane comunque la stessa:
Oggi ha un nome diverso ma è lei
non ha dimenticato la sua origine
senza uno scopo senza desideri
sta nel cuore della luce
ingombra di erba nera.

Dillo, stanno umiliando le tue
calme ali mostruose
e dall’alto una schiuma nebbia
si riversa soffice lingua comune.
(13)


La lingua ha dunque subito violenze, o maltrattamenti che ne hanno umiliato le “calme ali mostruose”, ma non ne hanno però annullato il potere, così che può rimanere “nel cuore della luce”, al centro del mondo. La lingua può ormai denunciare l’incombente pericolo dell’incomunicabilità “da dove esso proviene e come/ potrebbe cambiare il suo stato felice/ se chiusa alla pietà degli uomini/ sorda a ogni richiamo/ vedova soffre di parole/ contemplando la natura paziente sua compagna” (15). Solo con una ritrovata primordiale armonia con la natura, in cui prosperano “uomini” “piante” e “animali”, la lingua può rifarsi “ancora voce, risonanza” (15), e quindi riappropriarsi della possibilità di descrivere l’impossibile, di riaprire gli occhi dell’immaginazione.
È sempre Starobinski che, nell’ “Impero dell’Immaginario”, spiega come l’immaginazione sia allo stesso tempo uno strumento conoscitivo e comunicativo. Nel suo saggio sulla “Visibilità” ne Le Lezioni Americane, Italo Calvino ha ripreso quest’idea dell’immagine per spiegare come tutti i suoi libri partano da un’immagine che poi prende vita da sé, in quanto “le soluzioni visive continuano a essere determinanti, e talora arrivano inaspettatamente a decidere situazioni che né le congetture del pensiero né le risorse del linguaggio riuscirebbero a risolvere” (101). La caratteristica principale dell’immaginazione, rimane comunque quella del “repertorio del potenziale, dell’ipotetico, di ciò che non è né è stato né forse sarà ma che avrebbe potuto essere….golfo della molteplicità potenziale…indispensabile per ogni forma di conoscenza” (102). Il pericolo a cui si riferisce Ortesta, è lo stesso denunciato da Calvino: è il pericolo di perdere la facoltà propria dell’immaginazione (così come della lingua e dello sguardo), che è quello di aprire lo spazio al desiderio, di vedere anche l’impossibile, ciò che non è stato, e non lasciarsi catturare dalla rete delle “immagini prefabbricate”:
Il potere di evocare immagini in assenza continuerà a svilupparsi in un’umanità sempre più inondata dal diluvio delle immagini prefabbricate? Una volta la memoria visiva d’un individuo era limitata al patrimonio delle sue esperienze dirette e a un ridotto repertorio d’immagini riflesse dalla cultura; la possibilità di dar forma a miti personali nasceva dal modo in cui i frammenti di questa memoria si combinavano tra loro in accostamenti inattesi e suggestivi. Oggi siamo bombardati da una tale quantità d’immagini da non saper più distinguere l’esperienza diretta da ciò che abbiamo visto per pochi secondi alla televisione. La memoria è ricoperta da strati di frantumi d’immagini come un deposito di spazzatura, dove è sempre più difficile che una figura tra le tante riesca ad acquistare rilievo. (103)

La facoltà immaginativa trova lo spazio più adatto per attivarsi nel momento in cui il poeta lascia campo al non detto, all’indefinito, all’indeterminato, o anche al silenzio e al vuoto.10 Come precedentemente annunciato, la poesia di Ortesta si avvale proprio di vuoti, di pause che chiamano in prima linea l’interpretazione del lettore, che deve avvicinarsi così al testo attivando un’interpretazione dialettica con l’immaginabile e il virtuale, proprio come aveva teorizzato Starobinski. La poesia di Ortesta è proprio un campo del potenziale e del virtuale, che non dà una specifica direzione di lettura, ma solo indizi per trovarla. 
Il lettore vaga così nella “sfera del bosco"di Ortesta, e cerca di decifrare i suoi indizi:
Verso dove lo sai?
Non c’è direzione: solo fronde e perfetti
braccioli dal prato al selciato
freddi come luce di primavera
verdi nel cespuglio agitato dal vento
impercettibilmente variegato nel sonno
sul tronco stringendo le cosce
balbetta adolescente in un alito dolce
fiore dentro fiore retrocede balbetta
a una scia di neve caduta nell’acqua.
(16)
Lo spazio vuoto con cui inizia la seconda strofa del componimento è la rappresentazione grafica del momento di silenzio che l’autore lascia al lettore da riempire, con la propria facoltà immaginativa. Le “fronde” i “braccioli del prato” il “fiore” e “l’acqua” sono tutti elementi della natura a cui solo il poeta in collaborazione con l’interprete del suo testo, può dar voce, e riportano senz’altro alla memoria i “limoni” del Montale che con la sua poesia aveva cercato di entrare nella natura e captarne i segreti, sentirli coi sensi, poeticamente, intravedendone i frammenti al di là della fisica, nei momenti di silenzio. Come i limoni del Montale che richiedevano al lettore di astrarne il livello simbolico usando l’illusione e la facoltà immaginativa, così il bosco di Ortesta è pieno di “cose” che debbono essere ascoltate per intercettare il flebile legame che le lega, proprio nel punto in cui non tiene e che diventa indizio per un’astrazione metafisica. Montale aveva fatto una precisa proposta teorica che collocava la poesia in un rapporto metafisico col mondo, suggerendone un ascolto usando l’attivazione di tutti i sensi, e sviluppare così una particolare attenzione al silenzio, il mezzo migliore con cui dialogare con la natura, e che può portare a far rifiorire un rapporto attento con le cose.
1 Si veda il caso di Valerio Magrelli, che già alla giovane età di 35 anni vede pubblicata una sua opera omnia: Poesie (1980-1992) e Altre Poesie, (1996).
2 È Francesco Bona che in un saggio su Tirature cerca di analizzare il perché in Italia si scriva sempre più poesia, ma la si legga sempre meno, ricollegando questo fenomeno ai vari modi estemporanei in cui oggi il pubblico si avvicini alla poesia.
3 Bisogna comunque puntualizzare che Cosimo Ortesta non è assolutamente ignorato dalla critica, al contrario il suo nome sta sicuramente prendendo sempre più piede nel campo letterario italiano, non solo come scrittore (la sua prima opera Il Bagno degli Occhi ha vinto il premio Viareggio nel 1980), ma anche come critico di sé e di altri poeti sia italiani (è grande studioso e ammiratore di Attilio Bertolucci) che stranieri (soprattutto francesi).
4 Nella trasmissione radiofonica “Occasioni” di radio tre, andata in onda il 17 gennaio 2003, Ortesta afferma, riguardo Bertolucci “Quello che mi affascina di Bertolucci è la sua capacità di parlare del dolore. Bertolucci è una mente mite. Una mente capace di accogliere fino in fondo la sofferenza, il dolore, la luce e l’ombra, la vita e la morte”.
5 Il concetto di narrazione è qui usato in senso lato, come processo lineare che vede l’evoluzione di un soggetto.
6 Si veda a questo proposito il saggio di Valerio Magrelli, Vedere Vedersi. Modelli e Circuiti Visivi nell’Opera di Paul Valéry (2002), in cui l’autore, nell’analizzare la poetica di Valéry, arriva a teorizzare una rinascita dell’Io che, libero dall’ostruzione creata per mano della tradizione gnoseologica nichilista, riflette la propria specularità nell’osservare contemporaneamente se stesso e le diverse rappresentazioni di sé, chiamando continuamente in causa il punto di vista del lettore invitandolo ad impegnarsi in uno scambio dialogico e possibilmente dialettico.
7 Anche qui, lunghissimo sarebbe l’elenco di queste figure retoriche impiegate da Ortesta, che costituiscono una caratteristica distintiva della sua poesia. Rimando perciò ad un’analisi retorica più approfondita dei singoli componimenti.
8


9 Con il Benennungssprachspiel, Wittgenstein si ripropone di usare il linguaggio per creare le cose più diverse, in quanto innumerevoli sono i giochi linguistici possibili: “Innumerevoli tipi differenti d’impiego di tutto ciò che noi chiamiamo “segni”, “parole”, “proposizioni”. E questa molteciplità non è qualche cosa di fisso di dato una volta per tutte; ma nuovi tipi di linguaggio, nuovi giochi linguistici, come potremmo dire, sorgono, e altri invecchiano e vengono dimenticati” (Reale-Antiseri III, 504). Tutti, però, debbono essere analizzati per quello che sono, nella loro quotidianità e nella loro espressione contenente una finalità specifica.

10 Nel parlare del potere dell’immaginazione non si può non ricordare il Leopardi e alle sue teorie sulla lingua italiana, romantica proprio perché piena di parole “infinite” che potessero aprire lo spazio dell’immaginazione, l’unica capace di opporsi all’ “apparir del vero”. La tensione leopardiana dell’aspirazione all’infinito e alla conoscenza era irrisolvibile perché limitata dai confini ossessivi della realtà, che possono essere evasi solo grazie al potere liberatorio dell’immaginazione poetica e soggettiva. Nel Discorso sulla Poesia Romantica, Leopardi aveva scritto come la poesia dovesse dilettare e ingannare l’immaginazione nella sua imitazione della natura. Nello Zibaldone il poeta aveva poi sviluppato il pensiero spiegando come il potere dell’immaginazione fosse indispensabile all’animo umano:
La ragione ha bisogno dell’immaginazione e delle illusione ch’ella distrugge; il vero del falso; il sostanziale dell’apparente; l’insensibilità la più perfetta dalla sensibilità la più viva; il ghiaccio del fuoco; la pazienza dell’impazienza; l’impotenza della somma potenza; il piccolissimo del grandissimo; la geometria e l’algebra della poesia…
[…]
Chi non ha mai avuto immaginazione, sentimento, capacità di entusiasmo, di eroismo, d’illusioni vive e grandi, di forti e varie passioni, chi non conosce l’immenso sistema del bello, chi non legge o non sente, o non ha mai letto o sentito i poeti, non può assolutamente esser un grande, vero e perfetto filosofo, anzi non sarà mai se non un filosofo dimezzato (1056-1833).


NOTA:
Il saggio completo  sarà pubblicato nella versione cartacea di  /Le/ Variazioni critiche

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