nuda
fraterna lingua
contro
l’esperienza del giorno.
Le
sue costellazioni luminose e fredde
sono
presaio di amori incerti
di
fiocchi di neve, bufere incandescenti,
e
al centro del campo azzurro la pioggia roteando
fa
notte estiva, quiete e calma,
in
cui si chiude assonnata e ferita
un’altra
perfezione.
Cosimo
Ortesta Serraglio
Primaverile
(1999).
Cosimo
Ortesta nasce a Taranto nel 1939 e la sua prima pubblicazione risale
al 1977, con il componimento “La passione della biografia”
apparso nei Quaderni
della Fenice
(diretti da Gianni Raboni). Solo un paio di anni più tardi Ortesta
darà alle stampe la sua prima raccolta: Il
Bagno degli Occhi (1980),
seguita da La
Nera Costanza
(1985) e Nel
Progetto di un Feddo Perenne
(1988). Come si può notare anche solo dal titolo dell’ultima
opera, queste tre raccolte costituiscono un continuum
in cui l’autore esplica il proprio progetto poetico. Partendo da
una percezione principalmente concentrata nell’organo visivo “in
cui i corpi, afferrati nella loro nuda presenza, si offrono sullo
sfondo di un pensiero che cerca il proprio limite rappresentabile, la
forma purificata della propria materialità, fino alla resa a una
sorta di elemento luminoso e incorporeo che abita biologicamente lo
spazio e si riverbera nei luoghi della mente” (Bonito, Il
Gelo,
16), Ortesta realizza una “parola che si fa visione”, si congela
nel verso e si liquefa, “filtra/ all’improvviso come un segnale/
dalle crepe rotte su un fianco” (La
Nera Costanza).
Il
progetto poetico di Ortesta, inoltre, si accompagna non solo di varie
traduzioni da Baudelaire, Rimbaud, Mallarmé, Char e Jaccottet, ma
anche di una raccolta antologica dei suoi brani, da lui stesso
curata, Una
Piega Meraviglia
(1999), edita per le edizioni Anterem.
La riflessione critica dello stesso autore che arricchisce tale
antologia è segno indistinto della consapevolezza interpretativa e
programmatica di Ortesta, e della canonizzazione precoce che sembra
essere diventata caratteristica sempre più comune per i poeti di
questi ultimi anni.1
Eppure, forse a causa del recente sovraffollamento del panorama
poetico italiano nel contesto letterario contemporaneo, Ortesta sta
ancora cercando di raggiungere un suo spazio critico ben definito.2
Il suo nome tutt’oggi rimane all’ombra di altri: l’unico
critico che si è interessato principalmente allo studio dell’opera
di Ortesta è Vitaniello Bonito, ma il suo libro Il
Gelo e lo Sguardo
rimane un caso isolato, e si ferma comunque solo all’analisi delle
prime tre raccolte del poeta.3
Da
queste brevi premesse si può subito capire come sia difficile
cercare di inquadrare la poesia di Ortesta all’interno di una
categoria assoluta: basti pensare che sebbene il poeta scriva per la
rivista Anterem
i temi e le modalità della sua scrittura sono piuttosto riferibili a
una poesia In
re,
in quanto poesia delle immagini, poesia che “si faccia corpo, che
si possa vedere e toccare”, “in cui il colore del suono nasce
come dall’immagine, non l’immagine dal colore del suono”
(Anceschi, 22). La parola di Ortesta diventa vitalisticamente un
veicolo di un pensiero rappresentabile proprio nel momento in cui sta
indagando i limiti di tale rappresentabilità, e la sua produzione
poetica ne esplica i modi e la rappresentazione stessa.
Ma
può veramente, l’attimo poetico, creare un momento di vitalità
linguistica all’interno di sé? Qual è il contenuto della forma
poetica di questa poesia che nasce e si rigenera in sé? Ed in che
modo Ortesta sviluppa il suo discorso poetico narrativo nella
successione dei componimenti? In altre parole: come prende forma il
suo progetto poetico per una rinascita della vitalità linguistica,
come si dipana e come agisce all’interno dei versi delle sue
raccolte? E in fine, qual è, in tutto questo, il ruolo del lettore
e del suo atto interpretativo? Sono questi gli interrogativi a cui
cercherò di trovare una risposta nella mia analisi. A questo scopo
analizzerò alcune delle poesie tra le più significative di quella
che è tutt’ora la più recente raccolta di Ortesta, Serraglio
Primaverile,
mettendo in evidenza come queste modellino il discorso narrativo, ma
anche come la lingua stessa si appropri di una vitalità nuova nel
componimento dei versi. Lo scopo principale di questa mia ricerca è
proprio quello di indagare come l’idea e le forme della lingua
vengano sviluppate nei versi di Serraglio
Primaverile
che sarà qui analizzato come esempio stilistico del processo
creativo che l’attimo poetico crea come momento di vitalità
linguistica in sé.
Serraglio
Primaverile,
esce ben undici anni dopo Nel
Progetto di un Freddo Perenne
e può essere considerata come una rivisitazione delle altre opere
alla luce di una nuova primavera, in cui la vitalità linguistica
sprigiona un nuovo vigore, anche se rimane ancora chiusa in un
“serraglio”. Il gelo che aveva immobilizzato i versi precedenti
si scioglie ora davanti allo sguardo di un bambino che in silenzio
“assiste al suo stupore” (10). Quest’ultima prova artistica di
Ortesta si propone come “una sorta di disgelo esistenziale e
poetico, perché la primavera diviene misura interiore di uno sguardo
che può restituire le ombre ai corpi e la luce di uno stupore che sa
nuovamente interrogare l’esperienza in una “nuda e fraterna
lingua” (Lorenzini 241).
La
raccolta contiene componimenti poetici in versi liberi divisi in
sette diverse sezioni, ognuna con un titolo a sé, ma sempre in
dialogo narrativo l’una con l’altra. L’ultima di queste,
quella da cui prende il titolo l’intera raccolta, è esplicitamente
dedicata ad Attilio Bertolucci, nata, come lo stesso Ortesta
dichiara, “per suggestione” (97), dalla lettura de La
Camera da Letto.
Bertolucci, che tra l’altro muore l’anno successivo all’uscita
di Serraglio
Primaverile,
deve quindi essere visto come un autore in dialogo col poeta
triestino, il quale ne riprende la ricerca stilistica e poetica.4
Come quelli del suo padre artistico, anche i versi di Ortesta si
colorano di un sapore narrativo che dà continuità alle poesie della
raccolta, e che può perciò essere letta come un continuum
narrativo con un suo inizio e una fine ben definita.5
In questo contesto, Serraglio
Primaverile
si può vedere come una narrativa il cui soggetto viene annunciato
fin dal primo componimento poetico (la rinascita della “nuda
fraterna lingua”) e si evolve nello spazio della raccolta fino a
diventare immagine, “immagine/ di persona umanamente desiderata ma
non amata”, come recita il verso finale di “Stella” ultima
poesia della raccolta, nonché l’unica dell’ultima sezione.
Il
titolo della raccolta la pone in continuità dialogica con le altre,
e una prima analisi di esso può subito far intuire la tematica
proposta all’interno dell’opera e del programma poetico
intrapreso dall’autore: dopo il freddo dell’inverno arriva la
primavera, ma la rinascita che questa porta con sé è racchiusa in
un “serraglio” che delimita i confini di un supposto risveglio.
Si può subito ipotizzare che questo serraglio sia simbolicamente
riferito allo spazio delimitato entro i confini del contenitore
poetico, all’interno del quale prende forma e agisce una nuova
vitalità linguistica. L’epigrafe che apre la raccolta è già un
altro indizio che sottolinea la continuità poetica programmatica di
Ortesta, una ricerca in fieri che non è ancora giunta al punto
d’arrivo: “Da
un certo punto in poi non c’è più ritorno. /Quel punto dev’essere
raggiunto.
(Franz Kafka)” (4). Serraglio
Primaverile,
quindi, costituisce una delle tante tappe che portano al
raggiungimento di questo punto di non ritorno, inserendosi come la
proposta per una positiva ripresa delle potenzialità insite nel
potere poetico della parola.
La
prima delle sette sezioni di cui si compone la raccolta ha come
titolo “Nella Sfera del Bosco”, e il componimento che la apre
introduce subito il tema dominante della raccolta: il risveglio
della “nuda fraterna lingua”, da sempre radicata nel “ventre “
e nella “mente”, e che ora ha la forza di erigersi “contro
l’esperienza del giorno”. I riferimenti subito successivi alle
“costellazioni” e al trascorrere delle stagioni richiamano l’idea
del ciclo continuo della vita che si racchiude in se stesso, in
“un’altra perfezione”. Questa lingua appena rinata prende
forma nei versi, e crea subito l’immagine della vita che passa e si
ripete aprendosi e chiudendosi in circoli sempre perfetti, quasi
fosse alla ricerca di una primordiale armonia con la natura. Le
poesie che seguono continueranno a delimitare i confini del risveglio
della natura all’interno dei quali la lingua prende nuovamente
vita.
La
scrittura di Ortesta, in questo come in tutti gli altri componimenti,
si presenta come composta da periodi spesso sconnessi, che evocano
immagini dalla visibilità immediata, proponendoli come se fossero
dei pezzi di un mosaico in attesa di essere ricomposti, o uno
spartito che aspetta di essere eseguito dall’interpretazione del
lettore che solo potrà dar loro vita. L’interpretazione del
lettore è infatti elemento essenziale affinché i versi prendano
vita e la lingua si carichi di significato, e soprattutto affinché
riesca così a creare un immaginario visivo all’interno dei versi
della raccolta. Come spiega Jean Starobinski in La
Filologia e la Critica Letteraria,
infatti, “l’interpretazione deve essere in definitiva
riconosciuta come qualcosa che, di primo acchito, anima la scelta
dell’oggetto e il lavoro di restituzione” (180), ma nel far
questo non si deve eludere quello che è il potere della lingua e del
testo, che rimane sempre il primo interlocutore del lettore, “perché
il testo ha diritto di vaglio su quello che viene detto di esso;
rappresenta, per il discorso interpretativo, un interlocutore che non
si lascia eludere” (181).
L’approccio
critico di Jean Starobinski sembra il più adatto per analizzare
l’intervento poetico di Ortesta, in quanto il filosofo fonda la sua
critica sull’idea che l’atto letterario, modificato dal
linguaggio, “ceases to be a conditioned phenomenon and becomes a
conditioning intervention” (Goldhammer viii), necessario per
distinguere la linea sottile che divide la realtà dall’apparenza.
Per questo Starobinski usa la metafora dello sguardo panoramico
dall’alto (un
regard surplombant):
la troppa vicinanza fa perdere forma agli oggetti, mentre una
lontananza eccessiva ne priva delle loro peculiarità. Dunque, la
lontananza critica può mettere in luce la virtualità di un testo,
mentre l’atto interpretativo rimane sempre in dialogo con esso.
Starobinski vuole che il lettore si avvicini alle pause e ai buchi
del testo, che più di altre sono espressione della soggettività e
coscienza dello scrittore, e nei componimenti di Ortesta sono proprio
le pause, i buchi che creano l’immagine poetica, in quanto lasciano
spazio al non detto, e quindi all’immaginabile, che può prendere
forma solo grazie all’interveneto interpretativo e dialettico con
il lettore.
La
vitalità linguistica che postula Ortesta fin dal primo componimento
si esprime proprio nell’espressione delle potenzialità della
lingua all’interno del momento poetico, che prende forma nelle
immagini che ferma in sé come fosse un “chiaro rifugio invernale”
(9). Chiaro esempio ne è proprio la poesia successiva, che nel
breve spazio di due stanze crea l’immagine di una “bestia ferita”
distesa in posizione fetale “in un campo di fiori” che si
metamorfizza in quella di un bambino “che assiste al suo stupore”
(10): entrambe creature appena nate, che per analogia si possono
ricollegare alla “nuda fraterna lingua” del componimento
precedente. La poesia si compone dunque di immagini frammentate che
sono allo stesso tempo l’oggetto da vedere e l’occhio che le
scruta e “assiste al suo stupore”, come un occhio che si vede
vedersi, scruta se stesso nell’attimo stesso in cui guarda il mondo
esterno.6
L’immagine di cui parla il poeta, dall’aspetto metamorfico e
mostruoso, viene percepita solo se si impiegano tutti i sensi, ed è
rappresentabile nell’attimo poetico proprio nel momento in cui
prende forma grazie all’utilizzo di strumenti retorici quali la
dislocazione dei soggetti, enjambements significativi, fortissime
sinestesie.7
Tutte figure retoriche che aprono lo sguardo e permettono al poeta di
descrivere l’immagine in tutte le sue angolazioni, e al lettore di
attivare la propria immaginazione per creare la sua percezione
dell’immagine. Come la matita per disegnare, allora, il linguaggio
diventa un mezzo per riflettere sulla pagina bianca la soggettività
così generata, e lo sguardo ne rimane “l’attributo principale”,
parte di un ambizioso programma di rieducazione dello sguardo
(Magrelli xi).8
Il linguaggio, come la penna per scrivere o la matita per
disegnare, è un mezzo per riflettere sulla pagina bianca la
soggettività così generata dallo sguardo, in un infinita
possibilità di creazioni e interpretazioni, che ricorda la teoria
wittgenstaniana del Benennungssprachspiel.9
Wittgestein, con la sua idea del gioco linguistico, necessario per
creare con il linguaggio le cose più varie perché innumerevoli sono
le possibilità della lingua, si era opposto alla metafisica
dominante e aveva riportato l’attenzione del pensiero filosofico
moderno all’analisi interpretativa delle cose intorno a noi, primo
fra tutti il linguaggio. Ortesta, allo stesso modo, gioca con la
parola e con le sue innumerevoli combinazioni e significazioni, per
ridare alla lingua la vitalità di cui era stata privata dalla
Neoavanguardia. Il programma poetico di Ortesta prevede anzitutto
una presa di coscienza di sé, del potere della lingua minato dalle
generazioni poetiche precedenti, e quindi un riscatto della stessa
come lingua per comunicare, interpretare ed essere interpretata, e
per esprimersi nelle sue infinite possibilità, che hanno le proprie
radici proprio nel linguaggio poetico. Per
usare le parole di Kristeva, “literary practice is seen as
exploration and discovery of the possibilities of language; as an
activity that liberates the subject from a number of linguistic,
psychic, and social networks; as a dynamism that breaks up the
inertia of language habits and grants linguists the unique
possibility of studying the becoming of the significations of signs
(2-3).
Ortesta
esplicita il suo monito poetico in uno dei brevi componimenti che
seguono, in cui chiama in causa proprio la lingua, la “soffice
lingua comune” che, a dispetto delle umiliazioni subite, rimane
comunque la stessa:
Oggi
ha un nome diverso ma è lei
non
ha dimenticato la sua origine
senza
uno scopo senza desideri
sta
nel cuore della luce
ingombra
di erba nera.
Dillo,
stanno umiliando le tue
calme
ali mostruose
e
dall’alto una schiuma nebbia
si
riversa soffice lingua comune.
(13)
La
lingua ha dunque subito violenze, o maltrattamenti che ne hanno
umiliato le “calme ali mostruose”, ma non ne hanno però
annullato il potere, così che può rimanere “nel cuore della
luce”, al centro del mondo. La lingua può ormai denunciare
l’incombente pericolo dell’incomunicabilità “da dove esso
proviene e come/ potrebbe cambiare il suo stato felice/ se chiusa
alla pietà degli uomini/ sorda a ogni richiamo/ vedova soffre di
parole/ contemplando la natura paziente sua compagna” (15). Solo
con una ritrovata primordiale armonia con la natura, in cui
prosperano “uomini” “piante” e “animali”, la lingua può
rifarsi “ancora voce, risonanza” (15), e quindi riappropriarsi
della possibilità di descrivere l’impossibile, di riaprire gli
occhi dell’immaginazione.
È
sempre Starobinski che, nell’ “Impero dell’Immaginario”,
spiega come l’immaginazione sia allo stesso tempo uno strumento
conoscitivo e comunicativo. Nel suo saggio sulla “Visibilità”
ne Le Lezioni Americane, Italo Calvino ha ripreso quest’idea
dell’immagine per spiegare come tutti i suoi libri partano da
un’immagine che poi prende vita da sé, in quanto “le soluzioni
visive continuano a essere determinanti, e talora arrivano
inaspettatamente a decidere situazioni che né le congetture del
pensiero né le risorse del linguaggio riuscirebbero a risolvere”
(101). La caratteristica principale dell’immaginazione, rimane
comunque quella del “repertorio del potenziale, dell’ipotetico,
di ciò che non è né è stato né forse sarà ma che avrebbe potuto
essere….golfo della molteplicità potenziale…indispensabile per
ogni forma di conoscenza” (102). Il pericolo a cui si riferisce
Ortesta, è lo stesso denunciato da Calvino: è il pericolo di
perdere la facoltà propria dell’immaginazione (così come della
lingua e dello sguardo), che è quello di aprire lo spazio al
desiderio, di vedere anche l’impossibile, ciò che non è stato, e
non lasciarsi catturare dalla rete delle “immagini prefabbricate”:
Il
potere di evocare immagini in
assenza
continuerà a svilupparsi in un’umanità sempre più inondata dal
diluvio delle immagini prefabbricate? Una volta la memoria visiva
d’un individuo era limitata al patrimonio delle sue esperienze
dirette e a un ridotto repertorio d’immagini riflesse dalla
cultura; la possibilità di dar forma a miti personali nasceva dal
modo in cui i frammenti di questa memoria si combinavano tra loro in
accostamenti inattesi e suggestivi. Oggi siamo bombardati da una
tale quantità d’immagini da non saper più distinguere
l’esperienza diretta da ciò che abbiamo visto per pochi secondi
alla televisione. La memoria è ricoperta da strati di frantumi
d’immagini come un deposito di spazzatura, dove è sempre più
difficile che una figura tra le tante riesca ad acquistare rilievo.
(103)
La
facoltà immaginativa trova lo spazio più adatto per attivarsi nel
momento in cui il poeta lascia campo al non detto, all’indefinito,
all’indeterminato, o anche al silenzio e al vuoto.10
Come precedentemente annunciato, la poesia di Ortesta si avvale
proprio di vuoti, di pause che chiamano in prima linea
l’interpretazione del lettore, che deve avvicinarsi così al testo
attivando un’interpretazione dialettica con l’immaginabile e il
virtuale, proprio come aveva teorizzato Starobinski. La poesia di
Ortesta è proprio un campo del potenziale e del virtuale, che non dà
una specifica direzione di lettura, ma solo indizi per trovarla.
Il
lettore vaga così nella “sfera del bosco"di Ortesta, e cerca di
decifrare i suoi indizi:
Verso
dove lo sai?
Non
c’è direzione: solo fronde e perfetti
braccioli
dal prato al selciato
freddi
come luce di primavera
verdi
nel cespuglio agitato dal vento
impercettibilmente
variegato nel sonno
sul
tronco stringendo le cosce
balbetta
adolescente in un alito dolce
fiore
dentro fiore retrocede balbetta
a
una scia di neve caduta nell’acqua.
(16)
Lo
spazio vuoto con cui inizia la seconda strofa del componimento è la
rappresentazione grafica del momento di silenzio che l’autore
lascia al lettore da riempire, con la propria facoltà immaginativa.
Le “fronde” i “braccioli del prato” il “fiore” e
“l’acqua” sono tutti elementi della natura a cui solo il poeta
in collaborazione con l’interprete del suo testo, può dar voce, e
riportano senz’altro alla memoria i “limoni” del Montale che
con la sua poesia aveva cercato di entrare nella natura e captarne i
segreti, sentirli coi sensi, poeticamente, intravedendone i frammenti
al di là della fisica, nei momenti di silenzio. Come i limoni del
Montale che richiedevano al lettore di astrarne il livello simbolico
usando l’illusione e la facoltà immaginativa, così il bosco di
Ortesta è pieno di “cose” che debbono essere ascoltate per
intercettare il flebile legame che le lega, proprio nel punto in cui
non tiene e che diventa indizio per un’astrazione metafisica.
Montale aveva fatto una precisa proposta teorica che collocava la
poesia in un rapporto metafisico col mondo, suggerendone un ascolto
usando l’attivazione di tutti i sensi, e sviluppare così una
particolare attenzione al silenzio, il mezzo migliore con cui
dialogare con la natura, e che può portare a far rifiorire un
rapporto attento con le cose.
1
Si veda il caso di Valerio Magrelli, che già alla giovane età di
35 anni vede pubblicata una sua opera omnia: Poesie
(1980-1992) e Altre Poesie,
(1996).
2
È Francesco Bona che in un saggio su Tirature
cerca di analizzare il perché in Italia si scriva sempre più
poesia, ma la si legga sempre meno, ricollegando questo fenomeno ai
vari modi estemporanei in cui oggi il pubblico si avvicini alla
poesia.
3
Bisogna comunque puntualizzare che Cosimo Ortesta non è
assolutamente ignorato dalla critica, al contrario il suo nome sta
sicuramente prendendo sempre più piede nel campo letterario
italiano, non solo come scrittore (la sua prima opera Il
Bagno degli Occhi
ha vinto il premio Viareggio nel 1980), ma anche come critico di sé
e di altri poeti sia italiani (è grande studioso e ammiratore di
Attilio Bertolucci) che stranieri (soprattutto francesi).
4
Nella trasmissione radiofonica “Occasioni” di radio tre, andata
in onda il 17 gennaio 2003, Ortesta afferma, riguardo Bertolucci
“Quello che mi affascina di Bertolucci è la sua capacità di
parlare del dolore. Bertolucci è una mente mite. Una mente capace
di accogliere fino in fondo la sofferenza, il dolore, la luce e
l’ombra, la vita e la morte”.
5
Il concetto di narrazione è qui usato in senso lato, come processo
lineare che vede l’evoluzione di un soggetto.
6
Si veda a questo proposito il saggio di Valerio Magrelli, Vedere
Vedersi. Modelli e Circuiti Visivi nell’Opera di Paul Valéry
(2002),
in cui l’autore, nell’analizzare la poetica di Valéry, arriva a
teorizzare una rinascita dell’Io che, libero dall’ostruzione
creata per mano della tradizione gnoseologica nichilista, riflette
la propria specularità nell’osservare contemporaneamente se
stesso e le diverse rappresentazioni di sé, chiamando continuamente
in causa il punto di vista del lettore invitandolo ad impegnarsi in
uno scambio dialogico e possibilmente dialettico.
7
Anche
qui, lunghissimo sarebbe l’elenco di queste figure retoriche
impiegate da Ortesta, che costituiscono una caratteristica
distintiva della sua poesia. Rimando perciò ad un’analisi
retorica più approfondita dei singoli componimenti.
9
Con il Benennungssprachspiel,
Wittgenstein si ripropone di usare il linguaggio per creare le cose
più diverse, in quanto innumerevoli sono i giochi linguistici
possibili: “Innumerevoli tipi differenti d’impiego di tutto ciò
che noi chiamiamo “segni”, “parole”, “proposizioni”. E
questa molteciplità non è qualche cosa di fisso di dato una volta
per tutte; ma nuovi tipi di linguaggio, nuovi giochi linguistici,
come potremmo dire, sorgono, e altri invecchiano e vengono
dimenticati” (Reale-Antiseri III, 504). Tutti, però, debbono
essere analizzati per quello che sono, nella loro quotidianità e
nella loro espressione contenente una finalità specifica.
10
Nel parlare del potere dell’immaginazione non si può non
ricordare il Leopardi e alle sue teorie sulla lingua italiana,
romantica proprio perché piena di parole “infinite” che
potessero aprire lo spazio dell’immaginazione, l’unica capace di
opporsi all’ “apparir del vero”. La tensione leopardiana
dell’aspirazione all’infinito e alla conoscenza era
irrisolvibile perché limitata dai confini ossessivi della realtà,
che possono essere evasi solo grazie al potere liberatorio
dell’immaginazione poetica e soggettiva. Nel Discorso
sulla Poesia Romantica,
Leopardi aveva scritto come la poesia dovesse dilettare e ingannare
l’immaginazione nella sua imitazione della natura. Nello
Zibaldone
il poeta aveva poi sviluppato il pensiero spiegando come il potere
dell’immaginazione fosse indispensabile all’animo umano:
La
ragione ha bisogno dell’immaginazione e delle illusione ch’ella
distrugge; il vero del falso; il sostanziale dell’apparente;
l’insensibilità la più perfetta dalla sensibilità la più viva;
il ghiaccio del fuoco; la pazienza dell’impazienza; l’impotenza
della somma potenza; il piccolissimo del grandissimo; la geometria e
l’algebra della poesia…
[…]
[…]
Chi
non ha mai avuto immaginazione, sentimento, capacità di entusiasmo,
di eroismo, d’illusioni vive e grandi, di forti e varie passioni,
chi non conosce l’immenso sistema del bello, chi non legge o non
sente, o non ha mai letto o sentito i poeti, non può assolutamente
esser un grande, vero e perfetto filosofo, anzi non sarà mai se non
un filosofo dimezzato (1056-1833).
NOTA:
Il saggio completo sarà pubblicato nella versione cartacea di /Le/ Variazioni critiche
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