Macerata, centro
storico, via Crispi. Mi fermo davanti al palazzo prima della curva.
In sottofondo il brusio di alcuni clienti di un locale che sta per
chiudere.
C’è una targhetta
in ottone dove è inciso il nome “Ricci”. Punto l’indice verso
il campanello.
Un trillo regolare e
discreto si perde nella strada e dopo qualche secondo si apre il
portone.
Interno casa. Un
salone finemente arredato con mobili antichi. Le pareti affrescate.
-Saliamo?- il
Maestro indica le scale alle sue spalle.
Le opere d’arte ci
accompagnano fino al piano superiore.
Salotto. Due divani
di velluto e un tavolino di cristallo.
Il Maestro mi è
seduto davanti. La sua è una figura elegante, il suo volto emana un
calore che forse è il calore dei Maestri che lo hanno preceduto o
forse il calore dei fantasmi con cui è solito parlare per ritrovare
il senso del suo stesso fare.
Alle mie spalle
un’opera di Consagra e una finestra da cui filtra la luce di una
giornata di novembre. Sulla parete di fianco alla porta una serie di
stampe di vari artisti, tra cui alcune del Maestro. Fisso la stampa
all’estrema sinistra, vicino al mobiletto. E’ un lavoro di Ivo
Pannaggi: rappresenta la torre civica vista dalla piaggia. -La regalò
a mio padre prima di partire per la Germania- mi spiega il Maestro.
-Si conoscevano
bene?- chiedo. E da questo momento resto ad ascoltare la sua voce. La
vita di Nino Ricci raccontata da Nino Ricci. Gli anni degli studi a
Urbino, il trasferimento a Roma, la grande mostra di Picasso, gli
scandali negli ambienti accademici, l’incontro con Cantalamessa, la
strada della pittura, i suoi amori, Rothko e Klee, per cominciare.
-E’ possibile
visitare il suo studio?- gli chiedo. Il Maestro mi guarda con i suoi
occhi chiari, uno sguardo pacato, ma nello stesso tempo pieno di
furore, il furore di chi mette in gioco la sua vita con l’arte.
-Andiamo- mi dice tirandosi su.
Saliamo un’altra
rampa di scale, ci sono opere d’arte ovunque.
Lo studio è in
cima, sul punto più alto della casa, affascinante e inaccessibile
come la mente di chi crea. Un ballatoio con diverse stanze, quella
che ci accoglie è la più spaziosa, sulla parete centrale una grande
tela del Maestro i cui colori dominanti sono il rosa e l’azzurro.
Una biblioteca
addossata al muro sembra sorreggere il tetto. Mozart, leggo su
diversi tomi. Sul tavolino sotto la finestra, tra gli strumenti di
lavoro, c’è un cartoncino giallo opaco, un piccolo cartoncino dove
sono stati attaccati con punte di scotch dei pezzettini di carta.
Come può un pezzetto di carta diventare così espressivo?
Alle mie spalle dei
calchi, opere in cartapesta che riproducono in aggetto l’iconografia
degli ultimi lavori -Mi servono per capire cosa sto facendo- mi
spiega il Maestro.
Proseguiamo nella
stanza prospiciente, c’è un cavalletto con un’opera incompiuta.
-Sta lì da un mese-
sorride -L’arte è un tentativo di dominare il mondo. Ci vuole
tecnica. Ma è fondamentale saper aspettare. Attendere con pazienza
la spinta della creatività e quando arriva assecondarla. Tutto viene
da sé quando si sa ascoltare-
-Come è arrivato a
queste forme?- chiedo indicando l’opera che mi sta davanti.
-Il cimitero ebraico
di Praga-
-Che bella Praga-
-Il cimitero è la
cosa più bella di Praga. Il cimitero nuovo. Ci sei mai stato?-
Scuoto la testa.
-Peccato. La
prossima volta che vai a Praga devi visitarlo. Ci sono stato nell’86,
in pieno regime comunista. Ero con Giancarlo Liuti, forse lo conosci.
Siamo entrati per puro caso, c’era una mostra di bambini per
commemorare lo Shoa. Entrammo e mi mancò il fiato. Per la bellezza e
la verità silenziosa di quel posto. Ho sentito una presenza
fortissima, che dovevo rievocare. Un’esperienza che da quel giorno
continuo a raccontare. Strati sovrapposti di storia. La memoria del
mondo e dell’uomo- Fisso il quadro di fianco alla porta: quattro
lapidi rosa mattoncino sospese tra cielo e terra. -Andiamo di là- mi
dice il Maestro precedendomi. Proseguiamo per il corridoio che unisce
le diverse stanze. Davanti a un’opera astratta del ’59 il Maestro
sorride -Sono stato fortunato a scegliere la strada dell’astrattismo-
sfiora la tela che tanto ricorda un lavoro di Klee -Il realismo ha
avuto i suoi grandi artisti, penso a Sironi, ma poi?- sospira -Klee è
stato fondamentale nella mia vita-
-Come il cimitero di
Praga?-
Indica un lavoro
materico della metà degli anni ’60 -Dovevamo superare la
tradizione. Il passato era troppo ingombrante. Non era facile trovare
la strada giusta. Quella che pensavi fosse la strada giusta a volte
non lo era-
-Bisogna essere
onesti per fare arte- dico.
-Che altro possiamo
fare?- sorride -A me è sempre mancata la furbizia dell’artista
contemporaneo-
-Posso fotografare?-
-Fai, fai- Che sia
un’opera degli anni cinquanta o del 2013, la voce interiore
dell’artista continua ad arrivare con forza. La superficie dipinta
si muove nel miracoloso incastro del piano unico del quadro. Studio
chirurgico del colore e lirismo convivono in un’indagine che mi fa
pensare all’Infinito di Leopardi. Poesia fatta tela. L’accadimento,
di cui la superficie dipinta si fa evento, non è mai dove lo
vediamo, si muove nella memoria di chi osserva. La composizione, per
quanto perfetta, non ha nulla di razionale, nulla del calcolo che il
processo di stesura cromatica e delle conseguenti sfumature potrebbe
suggerire, qui tutto si fa fisico e metafisico, non c’è un confine
tra queste due categorie di pensiero. L’evidenza delle forme e dei
colori generati sull’abisso del foglio bianco esprimono il
sentimento di un possibile accadere che bisogna saper ascoltare.
Tutto è scrittura in senso di alfabeto parlato nella duplice lingua
del frammento e dell’intero. Tutto è esatto e amputato per
scongiurare il conosciuto. Tutto non è mai illuminato per effetto di
fonti di luce, ma sempre luce sorgente dall’interno. Tutto è
antinaturale nella misura in cui è profondamente umano.
-Queste opere sono
bellissime- dico.
Il Maestro fa un
breve sorriso -Dici?-
Epilogo
Saluti. Due persone
si scambiano un abbraccio. In fondo non si conoscono, ma conoscono un
comune sentire. La loro amicizia li ha preceduti, e come loro tutti
coloro che attraverso questo sentire vivono ogni giorno come
l’ultimo.
La visione è
proprietà del visionario, penso cominciando a risalire via Crispi. E
il visionario vive guardando nelle pieghe dell’evidenza. I palazzi
mi vengono incontro coi loro spigoli perfetti, così belli che mi
viene voglia di correre. Per un attimo mi volto verso la casa del
Maestro. Nino Ricci è un artista senza tempo, mi viene da pensare.
Chiudo gli occhi e lo immagino seduto al tavolo di lavoro con i suoi
strumenti. Il suo sguardo limpido e intenso fissa davanti a sé.
Oltre le opere appese, oltre la parete della sua casa, oltre le mura
della città, oltre il mondo conosciuto. Nell’isolata e sconfinata
possibilità di dire l’indicibile. Come solo i grandi artisti
possono fare.
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